Pannolini lavabili, abbigliamento biologico per bambini, fasce per portare neonati

Fast Fashion: chi paga il prezzo dei nostri vestiti?

Da piccola volevo fare la “disegnatrice di moda”: disegnavo abiti sugli album, scrivevo i prezzi e li facevo scegliere ai miei famigliari. Mi piaceva guardare i servizi di moda con le sfilate alla televisione, nella rubrica settimanale dopo il TG Uno delle 13.30. A 7-8 anni mi ero fatta anche portare da S.Lucia il gioco Gira la Moda, come molte altre bambine anni ’80 immagino… Per me la moda era fondamentalmente un’attività sartoriale e creativa: mia mamma cuciva in casa vestiti per me, per lei e per i miei fratelli (e qualcuno di questi vestiti ora l’ho passato a mia figlia!), scegliendo i cartamodelli dal mensile Burda. Ogni tanto andavamo a trovare una sua amica nell’atelier dove confezionava abiti da sposa: io girovagavo fra questi bellissimi abiti fatti a mano, guardavo le macchine da cucire con i rocchetti di fili colorati e giocavo a fare la catena calamitata con gli spilli. Devo dire che è stata solo una passione momentanea: ho poi preso altre strade, non so usare ferri e uncinetto, non ho cucito niente per i miei figli e, ahimé,  non ho mai nemmeno usato la macchina da cucire (orli e rammendi li affido ancora a mia mamma…).

Il costo dei vestiti

Mi sono affiorati questi ricordi guardando recentemente il docufilm “The True Cost”: quanto è cambiato il settore della moda in questi 30 anni! Da una produzione caratterizzata dalle 4 stagioni si è passati alla Fast Fashion, la moda veloce, da consumare, con nuovi arrivi ogni settimana per soddisfare sempre nuovi bisogni indotti da un marketing molto aggressivo. Nel documentario si punta in particolare l’attenzione sulla moda a basso costo delle grandi catene di distribuzione: cosa c’è dietro ad una t-shirt da 5 euro? Qual è il suo vero costo? Chi paga il suo prezzo? Già il fatto che si parli di “industria” della moda rende bene l’idea: il profitto del marchio è l’obiettivo finale, il lavoro creativo è diventato lavoro di manovalanza.

Migliaia di lavoratori, soprattutto donne, cuciono in Bangladesh, Cina, Cambogia, India capi di abbigliamento per il mercato americano ed europeo: capi che a noi costano pochi euro, che tutti possono permettersi per essere alla moda, che si possono eliminare a favore di nuovi acquisti senza tanti pensieri, perchè tanto si è speso poco. Vendere un prodotto ad acquisto ricorrente è sicuramente più profittevole che vendere un prodotto che si riacquisterà solo dopo anni e chi si occupa di marketing lo sa bene (è per questo che i nostri elettrodomestici e i nostri telefonini durano sempre meno: avrete già sentito parlare dell’obsolescenza programmata).

Il disastro di Rana Plaza in Bangladesh

Se il prezzo del prodotto finale deve rimanere basso è ovvio che si cercherà di ridurre i costi, spostando la produzione dove i vantaggi per il committente sono maggiori: Paesi in cui i salari dei lavoratori sono bassi, dove non si rispettano le più basilari norme in fatto di sicurezza dei luoghi di lavoro e tutela della salute dei lavoratori. Il 23 aprile 2013 è crollato a Dacca, in Bangladesh, un edificio contentente fabbriche tessili, causando la morte di 1133 persone e migliaia di feriti; le crepe nell’edificio erano già state segnalate, ma i lavoratori sono stati minacciati di decurtazioni dello stipendio se non si fossero presentati a lavorare. Rana Plaza Bangladesh crolloI vestiti confezionati in quell’edificio erano destinati a numerosi marchi di moda per il mercato occidentale: Adler Modemärkte, Auchan, Ascena Retail, Benetton, Bonmarché, Camaïeu, C&A, Cato Fashions, Cropp (LPP), El Corte Inglés, Grabalok, Gueldenpfennig, Inditex, Joe Fresh, Kik, Loblaws, Mango, Manifattura Corona, Mascot, Matalan, NKD, Premier Clothing, Primark, Sons and Daughters (Kids for Fashion), Texman (PVT), The Children’s Place (TCP), Walmart e YesZee (fonte: Wikipedia).

La beffa è che nell’industria del tessile i brand non sono proprietari delle fabbriche produttrici, quindi non sono mai direttamente responsabili di quello che vi accade. I grandi brand si rivolgono a piccoli imprenditori locali che, per non perdere l’affare, accettano la commessa al prezzo che il marchio è disposto a pagare. Gli operai a loro volta accettano le condizioni di lavoro imposte perché non hanno alternative: un sistema diabolico di moderna schiavitù in cui chi vince, vince sempre di più in termini di profitto, e chi perde, perde sempre di più: stipendio, salute, relazioni, prospettive di vita. Ci perdiamo però un po’ anche tutti noi: l’inquinamento dovuto all’utilizzo di sostanze nocive nelle fasi produttive finisce sulla nostra Terra; pesticidi e fertilizzanti per massimizzare la resa del cotone, di cui c’è sempre più richiesta, finiscono sulla nostra pelle. Perdiamo anche la nostra umanità, se continuiamo a volgere lo sguardo, chiudere gli occhi e a non farci domande sulla filiera di produzione di quello che acquistiamo.

La Fashion Revolution Week

Proprio per tenere alta l’attenzione sui problemi dell’industria del tessile è nata la Fashion Revolution Week, in occasione dell’anniversario del crollo della fabbrica a Rana Plaza. Una settimana in cui i clienti sono invitati a prendere coscienza della catena produttiva di ciò che indossano, chiedendosi “chi ha fatto i miei vestiti?” e ponendo la domanda ai produttori. Si può partecipare alle iniziative proposte da Fashion Revolution Italy ogni anno nella settimana che comprende il 23 aprile – anniversario del crollo di Rana Plaza – postando sui social media una foto di un vostro abito al contrario, con l’etichetta in vista e l’ashtag #WhoMadeMyClothes.

giacca quagga jeans ecogeco maglia altromercato

Io so chi ha fatto i miei vestiti: Giacca Quagga in PET riciclato Made in Italy, maglia equosolidale in cotone bio Auteurs du Monde, jeans Made in Italy di EcoGeco in cotone bio.

Ma si può fare anche qualcosa di più: comprare meno in favore di abiti che costano qualcosa di più ma che si avrà piacere ad indossare non solo perchè sono belli, ma perchè sono “puliti” ed etici. Capi che tratteremo con cura, la stessa cura che è stata utilizzata per confezionarli. Le alternative ci sono e non sono più solo “di nicchia” o per chi ha soldi da spendere in solidarietà: come l’agricoltura biologica in ambito alimentare è diventata sempre più apprezzata e ricercata dai consumatori, io sono convinta che anche il mercato della moda etica e sostenibile sarà sempre più ampio, partendo da scelte personali fino ad arrivare a decisioni che riguardano la pubblica amministrazione (ne parlo in questo post). In questo senso la conversione alla coltivazione del cotone biologico è una strada da percorrere con sempre maggiore convinzione, per il bene di tutti e dell’ambiente.

Dove acquistare moda etica?

Se vi capita di frequentare qualche mercato biologico ben fornito potreste trovare calze italiane in cotone biologico o canapa, capi d’abbigliamento sostenibile di piccoli produttori, scarpe fatte da chi ha deciso di dire basta a questo sistema. Per esempio potreste passare a Crema (CR) in maggio ed ottobre alla Fiera del Tessile organizzata sotto i portici del Museo Civico (prossima data: domenica 20 maggio, vedi i dettagli nella sezione Fiere ed Eventi in Homepage). Alle storiche Fiere “Fa’ la Cosa Giusta” di Milano, Trento, Torino, Sicilia e Umbria ci sono intere sezioni dedicate alla Critical Fashion. Nei negozi Altromercato diffusi in tutta Italia c’è da qualche anno una bellissima linea di abiti provenienti dal commercio equo e solidale, in stile sia casual che elegante. Ci sono anche siti internet specializzati nella vendita di abbigliamento etico e sostenibile, sia per adulti che per bambini.

 

Per l’abbigliamento per i bambini cerco di trovare fornitori di cui posso sapere cosa c’è oltre l’etichetta e sicuramente sono molto orgogliosa di proporre ai miei clienti i capi di Piccalilly in cotone biologico prodotti in India in progetti di commercio equo. Ma mi ha fatto anche piacere poter incontrare le sarte ungheresi che cuciono pannolini e abiti di Popolini/Iobio durante la mia gita di lavoro a Vienna.

Le alternative insomma non mancano… Io vi suggerisco di iniziare guardando “The True Cost” (è in inglese con sottotitoli in italiano) e di informarvi il più possibile, per poi lasciarvi conquistare dalla oggettiva qualità dei vestiti sostenibili. Esperienza personale!

Guarda l’abbigliamento bio di Pannolinofelice

Lucia

Mi chiamo Lucia Monterosso, vivo a Cremona e ho 3 figli. Da sempre interessata alle tematiche ambientali, al commercio equo e solidale, alla green economy, sono fondatrice di Pannolinofelice, una piccola impresa nata per diffondere l'uso dei pannolini lavabili e abbigliamento sostenibile per bambini.

ARTICOLI CORRELATI

18/01/2019    Abbigliamento bio, Pannolini lavabili

Quali vestiti usare con i pannolini lavabili?

05/01/2019    Abbigliamento bio

Saldi invernali (e cose che forse non sai sui saldi)

Scrivi il tuo commento

Commenta l'articolo

Recensioni recenti

Seguici su instagram

Seguici su facebook

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi